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Scientificamente Avis: La storia delle trasfusioni

Fin dai tempi più remoti, al sangue è sempre stato riconosciuto un valore incomparabile: gli Egizi lo usavano per preparare bagni rivitalizzanti, i Romani raccoglievano e conservavano quello sparso dai gladiatori, mentre nel Medioevo non era inconsueto berlo come farmaco rigenerante. 

Ma bisognò attendere il XVII secolo perché la prospettiva del trasferimento del potere vitale del sangue approdasse a una consapevolezza scientifica. Prima di tutto, nel 1628 l’inglese William Harvey pubblicò il trattato “Exercitatio Anatomica de Motu Cordis et Sanguinis in Animalibus” (che in latino significa “Pratica Anatomica sull’Attività del Cuore e del Sangue nei Viventi”): era la prima descrizione rigorosa del flusso sanguigno negli organismi animali. 

Il lavoro di Harvey gettò le fondamenta per esperimenti rivoluzionari. Cruciale l’attività di Francesco Folli da Poppi, studioso sotto i Medici che nel 1664 realizzò un apparecchio per lo scambio di sangue da un individuo a un altro. 

Fu su questa rotta che si coordinarono le prime effettive trasfusioni sanguigne. Figura di primo piano fu Jean Baptiste Denys de Montpellier, che ne effettuò con successo due, trasferendo sangue da agnello a uomo. Nel 1667 ripetè l’operazione anche una terza volta, ma l’esito fu tragico: il paziente non sopravvisse. La moglie del defunto denunciò l’accaduto alla corte di giustizia francese, inducendola a stabilire che qualsiasi trasfusione di sangue dovesse essere autorizzata dalla Facoltà di Medicina di Parigi. Questa era già alquanto ostile alla pratica, e non senza ragioni: statistiche che sarebbero state pubblicate due secoli dopo rivelano che, tra il 1666 e il 1874, le trasfusioni eterologhe (da animale a uomo) riuscivano solo nel 30% dei casi, mentre per quanto riguarda quelle da umano a umano i traguardi positivi non avevano mai superato il 50%. È per questo che, negli stessi anni, in Gran Bretagna le trasfusioni vennero addirittura proibite. Tutti questi provvedimenti circoscrissero immancabilmente il margine di sperimentazione e di sviluppo della tecnica trasfusionale, tant’è che diventò comune lo sfruttamento dei condannati a morte come cavie. 

Il processo di miglioramento doveva essere ancora lungo e ricco di insidie. Uno dei principali problemi riguardava la formazione di coaguli: una volta prelevato dal donatore e prima di essere immesso nella circolazione del ricevente, il sangue andava incontro a coagulazione, divenendo inutilizzabile. Nella ricerca di una soluzione, si rivelarono fatali gli azzardi ad impiegare la soda caustica nel 1826, il solfato e il bicarbonato di sodio nel 1868: quelli che avrebbero potuto rappresentare degli efficaci anticoagulanti portavano a livelli intollerabili l’acidità del sangue, che come oggi sappiamo deve restare in un ben preciso e ristretto intervallo di valori di pH. È solo tra il 1902 e il 1916 che entrò in vigore l’utilizzo dell’ACD (citrato destrosio), che garantiva la conservazione del sangue per più settimane senza dover fare i conti con effetti collaterali.

Nel frattempo, nel 1901 Karl Landsteiner scoprì che alcune delle feroci reazioni post-trasfusionali, spesso letali per il ricevente, erano legate all’incompatibilità tra antigeni e anticorpi presenti nel sangue di chi dona e di chi riceve. È a partire da questa essenziale constatazione che Landsteiner riuscì a classificare i quattro gruppi sanguigni (A, B, 0, AB), identificando nel 1940 anche il fattore Rh. 

Sulle spalle di questi sofferti progressi, coadiuvati dallo sviluppo di nuove e più adeguate apparecchiature, le trasfusioni di sangue erano pronte a diventare la formidabile risorsa che rappresentano oggi. Prima, però, la cultura del dono doveva ancora diffondersi: è in questo orizzonte che AVIS avrebbe preso forma…

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