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Arte e diagnosi: il potere diagnostico delle arti figurative

Rappresentazione artistica e diagnosi medica: due discipline apparentemente dissonanti, eppure accomunate dal fondamentale atto di osservare. Si parla di “iconodiagnostica” quando le competenze mediche vengono applicate allo studio delle opere d’arte figurativa.

Tra gli esponenti della Scuola Realista, in particolare, è sempre stata sentita la necessità di acquisire conoscenze anatomiche, per accompagnare alla propria attività artistica una solida consapevolezza medica: ne è un esempio paradigmatico Lezione di anatomia del Dottor Tulp 1 (1632) di Rembrandt Harmenszoon van Rijn, pittore olandese. Vi sono raffigurati un professore e i suoi studenti, intenti ad esaminare un braccio dissezionato. Secondo alcune interpretazioni, il movimento del Professor Tulp è simile a quello che compie un pittore: è come se Rembrandt volesse proprio sottolineare la sinergia tra medicina e arte.

Anche a Leonardo questa analogia era ben presente, come si nota nella estrema precisione del suo Uomo vitruviano 2 (1490). Questo, passato alla storia come ideale platonico di proporzioni anatomiche, presenta tuttavia un particolare dai più ignorato: il piede destro non ha cinque dita, ma sei. Una constatazione che la dice lunga su quanto l’idea di perfezione sia soggettiva e soprattutto arbitraria.

Ulteriori esempi di esadattilia sono forniti da due raffigurazioni di Raffaello: in Madonna di Casa Santi 3 (1498) è il piede del Bambino ad avere un sesto dito, mentre in Madonna Sistina 4 (1513-14) l’arto interessato è la mano destra del Pontefice greco Sisto II, martire e poi Santo nel III secolo.

Nell’affresco di Andrea Mantegna La Camera degli Sposi 5 (1465-1474) è fotografata un’altra “stravaganza”: l’artista ha ritratto in una domestica affetta da nanismo i sintomi di una malattia genetica rara, la neurofibromatosi di tipo I. L’ipotesi parrebbe corroborata da altri caratteristici segni: protuberanze sul viso (i neurofibromi, appunto) insieme a macchie sulle guance e sul mento.

Ancora più inconsueta è la condizione testimoniata da un anonimo pittore tedesco nel ritratto Petrus Gonsalvus 6: il nobile spagnolo raffigurato è evidentemente affetto da ipertricosi, un’anormale crescita di capelli su tutto il corpo. Si tratta del primo caso documentato di questa sindrome, anche conosciuta come “sindrome del lupo mannaro”.

Per contrasto, in Ritratto di ecclesiastico 7 (1680-1690), l’anziano protagonista mostra i segni di una chiara alopecia androgenetica (la famigerata calvizie), patologia tipica degli uomini,  oggi come ieri molto diffusa. 

Non manca, comunque, la raffigurazione di una donna con la stessa patologia. In Ritratto di Battista Sforza 8 (1465-66) di Piero della Francesca, l’ampia e spoglia fronte della giovane duchessa fa supporre l’azione di una forma giovanile di alopecia frontale. Occorre però tenere in considerazione che, secondo la moda del tempo, le donne tendevano a tirarsi indietro i capelli e a rasarseli parzialmente per meglio mostrare il viso ed esaltare la propria bellezza: non è quindi detta l’ultima diagnosi.

Ora, ci si potrebbe stupire di fronte alla frequenza di questa estrema schiettezza rappresentativa. Infatti non si può non considerare un’intrigante possibilità offerta da pennelli e scalpelli: quella di “correggere” il modello riprodotto nell’opera, riportando “nei ranghi” le sue imperfezioni estetiche. Anche alla luce dell’impegno dell’arte realista di aderire con precisione al mondo che osserva, d’altronde, sarebbe facile aspettarsi un intervento di “normalizzazione” da parte dell’artista, che in fondo ha sempre il potere di operare un “effetto PhotoShop” sul proprio lavoro. Il rifiuto di così tanti artisti di ritoccare i difetti dei modelli rappresentati, invece, non può che rendere tutte queste testimonianze mediche ancora più preziose.

Si pensi a Ritratto di un dottore di Giovanni Battista Moroni 9 (1524-1578), in cui quello che sembra un magistrato del tempo (un dottore in legge, dunque) viene raffigurato insieme a un considerevole bitorzolo al centro della fronte: è probabile che si tratti di un lipoma, un accumulo di grasso sotto la cute. In quanti resisterebbero alla tentazione di bypassare questa anomalia, in quanti non seguirebbero la pulsione (anche inconscia) di dipingere una fronte liscia e uniforme? Moroni, al contrario, non rinnega il suo scrupolo realista e fa di questo lipoma la peculiarità della sua opera.

Una situazione simile si riscontra ne La famiglia di Carlo IV 10, in cui sulla tempia di Maria Giuseppina di Borbone (la quarta figura da sinistra) si nota una sorta di macchia scura. Molti la hanno identificata con un melanoma, un tumore cutaneo potenzialmente molto pericoloso. In questo caso, comunque, l’autore Francisco Goya parrebbe avere la precisa intenzione di mettere in risalto la vanità e le imperfezioni di questa famiglia, quindi la riproduzione del melanoma sarebbe funzionale a questo scopo demistificante. 

Rivestono un particolare interesse alcune opere in cui farebbe capolino un pressoché indubitabile tumore al seno. La notte, tanto nell’originale scultoreo 11 (1534) di Michelangelo quanto nella trasposizione in pittura 12 (1565) di Michele Tosini, consiste in un nudo di donna semidistesa, il cui seno sinistro manifesta un’evidente distorsione. Oltre alla difficoltà di rendere questo dettaglio, su tela come su marmo, sarebbe qui a maggior ragione comprensibile un’operazione “correttiva”, volta a ristabilire la simmetria tra i seni. Ma questo non succede, così come nel caso analogo de La Fortezza 13 di Maso da San Friano.

Impressionante la minuziosità di Hans Holbein il Giovane, che nel suo Ritratto di Sir Richard Southwell 14 non manca di restituire con tridimensionalità quasi “tattile” i connotati del nobile rappresentato: la fronte, il mento e la guancia risultano increspate dalle cicatrici di una passata tubercolosi.

In modo ben più inequivocabile, il Ritratto di Ferdinando II de’ Medici 15 (1626) immortala il Granduca in un momento critico di contagio da vaiolo, con innumerevoli pustole a rendere il volto irriconoscibile. Ferdinando sarebbe guarito dalla malattia, ma sarebbe poi morto di ictus nel 1670.

La rappresentazione di quella che sembrerebbe un’eruzione cutanea da herpes zoster, invece, è funzionale ad arricchire l’ambientazione infernale e terrificante de La tentazione di Sant’Antonio 16 di Matthias Grünewald (la figura interessata è quella in basso a sinistra). Il soprannome dell’herpes zoster, “fuoco di Sant’Antonio”, è appunto legato a un episodio leggendario della vita del santo, che durante un viaggio nel deserto sarebbe stato assediato dalle fiamme del diavolo procurandosi ustioni su tutto il corpo – simili ai violenti rash cutanei di questa malattia.

Anche una singolarità estetica del calibro della vitiligine ha avuto il suo spazio nell’arte, attraverso la mano del misterioso pittore settecentesco Le Masurier. I suoi ritratti inquadrano soprattutto abitanti delle Antille, come Madeleine de La Martinique 17, una donna che sorregge un bambino affetto da questa vasta depigmentazione cutanea.

Non manca poi l’attenzione a disturbi legati più che altro alla senilità. In Ritratto di vecchio e nipote 18 del Ghirlandaio (1449-1494) il soggetto anziano presenta i sintomi di un palese rinofima, un’alterazione delle proporzioni del naso in una forma bitorzoluta.

In un’opera di Iacopino del Conte (1510-1598) è stata invece riscontrata una forma artritica che colpisce le mani del soggetto rappresentato. La rilevanza del particolare sta nel fatto che l’opera in questione è il Ritratto di Michelangelo Buonarroti 19: è probabile che il celebre artista avesse cominciato a soffrire di artrite in seguito alla sua dedizione costante all’uso di pennello e scalpello. Lungi dal voler sublimare le malattie e le deformazioni dei propri modelli, dunque, è talvolta l’artista stesso ad essere affetto da disturbi del genere.

Un esempio estremo, radicale di simbiosi tra arte e accuratezza medica si incarna nelle Macchine Anatomiche 20, conservate nel sotterraneo della Cappella Sansevero a Napoli: due scheletri autentici, uno maschile e uno femminile, ognuno avvolto da una sconvolgente ricostruzione del rispettivo sistema arterovenoso. Realizzate intorno al 1760 dal medico Giuseppe Salerno, i due studi si distinguono per l’incredibile puntigliosità; proprio questa ha fatto sospettare una realizzazione operata con metodi discutibili, come l’uccisione e l’imbalsamazione di due servi del committente.

Ma tutte queste rappresentazioni, tutta questa mole così densa ed eterogenea di punti di contatto tra occhio artistico e occhio medico, tutto questo non è che la punta di un iceberg  gigantesco. C’è un’intera tradizione figurativa che raccoglie documenti di questo tipo, trascendendo i confini tra epoche e nazioni. L’arte è un inesauribile repertorio di potenziali diagnosi, e oltre a fornire un appassionante esercizio per i medici in erba permette a tutti noi di acquisire un’essenziale consapevolezza: le malattie ci sono sempre state e quindi sempre ci saranno, di conseguenza abbassare la guardia non è un’opzione.

 

 

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